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“E’ tempo di…”, la stagione 2012/2013 del Teatro Lyrick di Assisi, prosegue mercoledì 27 febbraio alle ore 21.15 con la produzione Bags Entertainment “Open”, uno spettacolo diretto e coreografato da Daniel Ezralow, scritto da Daniel Ezralow e Arabella Holzbog e interpretato dalla DEConstructions Dance Company (Chelsey Arce, Dalila Frassanito, Santo Giuliano, Stephen Hernandez Kelsey Landers, Re’Sean Pates, Marlon Pelayo e Anthea Young). Con “Open” Daniel Ezralow torna con una nuova proposta teatrale dopo quattro anni di assenza dai palcoscenici italiani. L’arte coreografica di Daniel Ezralow si fonda su un’idea di danza fatta di divertimento, agilità, sorpresa, leggerezza, coinvolgimento diretto del pubblico e utilizzo emozionale delle tecnologie visive più all’avanguardia. Sono questi gli elementi che hanno reso le sue coreografie veri e propri “eventi” mediatici. Teatro, cinema, televisione, musica, moda, sport e pubblicità: non c’è interpretazione dell’arte del movimento, e in generale della comunicazione visiva, che non sia stata sperimentata da Daniel Ezralow e dal suo straordinario talento. Parte da qui il suo nuovo spettacolo “Open”, un’originalissima selezione del vasto vocabolario coreografico creato per il palcoscenico utilizzando celebri brani di musica classica. Il percorso professionale di Daniel Ezralow lo vede come ballerino professionista nella compagnia di Paul Taylor e fra i fondatori delle compagnie MOMIX e ISO (per la quale è ballerino solista, coreografo e direttore). Ha creato coreografie originali per numerose compagnie internazionali fra le quali The Paris Opera Ballet, Hubbard Street Dance Chicago e Batsheva. Lo spettacolo multimediale “Mandala” (1999-2002), diretto, coreografato e ballato dallo stesso Ezralow, è andato in scena in tutto il mondo ed è stato recensito come il lavoro di un “genio moderno”. Il suo incredibile estro creativo l’ha portato a lavorare, oltre che per il teatro (fra cui il suo ultimo spettacolo Why, Aeros, Love del Cirque du Soleil, Cats nella versione italiana della Compagnia della Rancia, Tosca – Amore Disperato di Lucio Dalla, il musical “Spiderman – turn off the dark”, diretto da Julie Taymor e musiche di Bono e The Edge), anche per il cinema (fra cui il recentissimo “Across the Universe”, film-musical di Julie Taymor), per la moda (con gli stilisti Issey Miyake e Koji Tatsuno, Roberto Cavalli, Hugo Boss) e per la musica (con gli artisti Sting, U2, David Bowie, Pat Metheny, Andrea Bocelli, Ricky Martin). Per la televisione italiana Daniel Ezralow ha ideato le coreografie per le ultime quattro edizioni dello show “Amici di Maria De Filippi”, per le ultime tre edizioni del “Festival di Sanremo”, per il recente show di Fiorello “Il più grande spettacolo dopo il weekend”, senza dimenticare nel 2001 la trasmissione di Adriano Celentano “125 milioni di caz..te”.
In “Open”, la danza contemporanea si fonde con la musica classica in un esaltante connubio, per trasportare il pubblico in una nuova dimensione dove umorismo e intensità danno vita a una miscela esplosiva di straordinaria fantasia creativa, emozione scenica e puro entertainment. Brevi quadri e fulminanti vignette tengono il pubblico in uno stato di eccitante attesa e meravigliata sorpresa, che fanno dello show una inarrestabile e esaltante serie di climax tecnici e emotivi. Il vocabolario espressivo di Ezralow è, come sempre, provocatorio, con l’intento di interrogarsi continuamente sul concetto di danza e umanità. Il cast di otto danzatori e danzatrici della sua compagnia Americana, con talenti e stili differenti (dalla danza classica alla danza moderna, dalla ginnastica alla street dance), ha lavorato insieme allo staff creativo del coreografo statunitense, per creare uno spettacolo che sarà di certo tra i più grandi successi della stagione teatrale. In occasione dello spettacolo “Open”, il Teatro Lyrick di Assisi prevede riduzioni sul costo del biglietto e tariffe speciali per le scuole di danza; per ricevere maggiori informazioni è possibile contattare telefonicamente il Botteghino del Teatro Lyrick allo 075.8044359. Il prossimo spettacolo in cartellone è “A qualcuno piace carta” con Ennio Marchetto, previsto per giovedì 7 marzo.

Daniel Ezralow’s OPEN

 

Intervista Daniel Ezralow

D. Perché ha scelto la musica classica tradizionale?
R. Perchè è troppo banale costruire un balletto sulla musica rock o elettronica o sulla musica classica trasformata in musica rock. Ho scelto proprio la più tradizionale e conosciuta musica classica, come i Notturni di Chopin e le musiche più famose di Rossini, Beethoven, Bach. Creano un bel contrasto.
D. Ha scelto l’Italia o l’Italia ha scelto lei?
R. Non lo so, credo che ci siamo scelti reciprocamente. La mia seconda casa, dopo Los Angeles, è qui. Ci sono sempre stato bene, fin dalla prima volta che ci ho messo piede. Sia al nord che al sud, io non vedo differenze.
D. Danza, televisione, cinema: ma lei sa fare proprio tutto?
R. Non lo so, però ci provo. Sono molto eclettico, non so fare delle scelte e quindi faccio tutto. Ma sempre con molta umiltà.
D. Il teatro è in crisi come tutto il resto. Il balletto sembra meno in crisi. E’ vero? E’ d’accordo?
R. L’arte in generale è l’unica arma che l’uomo possiede per superare la crisi, perché dà gioia, voglia di vivere e un senso alla vita. E’ proprio nei momenti di crisi che, chi ce l’ha, tira fuori tutta la sua creatività. L’arte è una delle rare cose che non può andare indietro, ma solo avanti.
D. Si può davvero cambiare il mondo con la danza?
R. Non è mia intenzione cambiare nessuno, non voglio essere politico; penso, invece, di cambiare qualcosa con l’energia. Vorrei che chi vedesse lo spettacolo avesse una buona sensazione e, poi, la trasmettesse a qualcun altro; e così via. M’immagino una cascata di gioia che si diffonde. Questo è quello che con la danza posso raggiungere.
D. Cos’è la danza per lei? E come ha cominciato?
R. Ho cominciato tardi, all’università studiavo medicina e mi dedicavo allo sport; poi mi avvicinai alla danza con un corso e mi prese la febbre che non mi ha più lasciato. Ci vollero però una decina d’anni prima di creare una coreografia. È stato un passaggio metamorfico, da atleta alla danza. La danza per me è la vita, è un’energia dentro di noi, universale, noi siamo nati col movimento, è come l’ossigeno nell’aria.
D. Il carattere principale della sua danza?
R. Penso la leggerezza; anche in questo spettacolo tratto il tema del riciclo, per esempio, ma in modo accessibile, con ironia e leggerezza. Ecco questo per me è fondamentale.
D. Ezralow, lei ai tempi dei Momix ha rinnovato la danza rendendola popolare, atletica e collaborando anche con rockstar come gli U2. Ora, invece, punta sulla classica. È tempo di un cambio di rotta?
R. L’artista deve sempre de-costruire per rinnovarsi, è fondamentale per la creatività. In questa fase della mia vita mi rendo conto che la musica classica è molto moderna. Bach, ad esempio, è pazzesco. Se lo ascolti, dopo non ti piace più neanche il rock. Sottolineo questa modernità attraverso coreografie piene di vita ed energia, venti quadri su altrettanti famosissimi brani.
D. Lei ha fiducia nei giovani?
R. Moltissima. Ho cresciuto generazioni di ballerini e ho sempre cercato di chiedere loro in modo leale cosa volessero davvero dalla vita, cosa sentissero dentro di sé. I più giovani sono cresciuti con dei nuovi valori che noi non avevamo, come il rispetto per l’ecologia. Lo vedo in mio figlio che a dieci anni nella sua scuola di Los Angeles segue programmi innovativi sul rimboschimento. Saranno loro a salvare il mondo.
D. Teatro, cinema, tv, musica, moda, sport: in trent’anni di carriera ha sperimentato tutto.
Ma dove si trova più a suo agio?
R. Ogni volta trovo un modo diverso di esprimermi, che sia Martha Graham, i Momix o Broadway. Quando ho iniziato a danzare volevo solo capire come saltare. Poi ho cercato la perfezione del movimento. Ora non penso più a cosa fare, ma a cosa accade intorno al corpo. Ho capito che la danza esiste perché siamo vivi. Già il battito del nostro cuore è un movimento che ci spinge a ballare e ci accompagna per tutta la vita.
D. Ha lavorato per Sting, gli U2, Fiorello, Celentano, David Bowie. Chi è stato più difficile da
accontentare?
R. Forse Vittorio Gassman. Abbiamo lavorato insieme in “Ulisse e la bianca balena”. Aveva un grande ego e, a volte, era molto crudo, ma era sempre teso a creare. In generale per me l’Italia è un grande laboratorio creativo. Mi ha dato la possibilità di sperimentare come da nessun’altra parte. E di essere sempre “Open”, aperto.
D. Essere diventato un divo nell’universo Momix l’ha aiutata per continuare la sua carriera al top, o la obbliga a fare sempre riferimento alle origini?
R. Niente del passato è un vincolo per me, ma solo una crescita professionale. Sono cresciuto, cambiato, evoluto e non sono certamente più lo stesso di ieri; ma le origini sono importanti perché hanno contribuito a formare il Daniel di oggi.
D. Sicuramente la sua grande fama attuale in Italia è dovuta alla televisione. Quali sono i programmi che ha amato di più fare?
R. Non penso di essermi conquistato una fama solo grazie alla televisione. Sicuramente Sanremo e “Amici” hanno accresciuto la mia popolarità, ma in Italia ho fatto anche pubblicità, cinema e teatro. “Amici” è sempre molto divertente e fresco, ma devo dire che Sanremo è un impegno concitato, emozionante e coinvolgente dove ognuno cerca di dare il meglio di sé in tempi strettissimi.
D. Tra il Festival di Sanremo e i musical cosa cambia nel suo lavoro di coreografo?
R. Cambia molto nella creazione della coreografia, soprattutto nei tempi. In televisione le coreografie sono brevi, di pochi minuti, e devono subito essere d’impatto, in teatro invece è esattamente il contrario. Inoltre, il musical è un prodotto che dura nel tempo e la coreografia si ripete all’infinito. Ad esempio “Spiderman” è ancora in scena e le mie coreografie con lui.
D. Qual è la differenza tra lavorare in tv e lavorare per la scena?
R. Il teatro è vivo, lo spettacolo è in scena ogni sera in modo differente. Cambia il pubblico, il luogo, il feeling dei ballerini, gli applausi. Questa è la grandezza del teatro.
D. Le sue coreografie sono ricche di energia, leggerezza. Possono aiutare i giovani ad avvicinarsi alla classica?
R. Assolutamente. Dagli anni ‘80 in poi si è instaurato un legame fortissimo tra la danza e la musica pop o rock. I musicisti hanno affidato ai coreografi i videoclip delle loro canzoni, e i ballerini delle grandi accademie si sono ritrovati a interpretare i Beatles. In questa idea, però, non c’è più niente di nuovo. La novità, invece, è vedere un ballerino jazz o hip hop che danza sull’ouverture del Guglielmo Tell di Rossini. La classica oggi ha tanto da dire, in questo senso è nuovissima.
D. Non la pensano così tanti giovani che, per tentare la sorte nel mondo dello spettacolo, fuggono all’estero.
R. Ma forse io mi sono sentito così libero in Italia proprio perché non sono italiano. Parlo la vostra lingua, so cucinare gli spaghetti e i risotto ma resto uno straniero, un americano di origini ebreorusso-polacche. Per trovare se stessi bisogna andarsene, e poi magari ritornare. Viaggiare è fondamentale, non bisogna averne paura.
D. Ha collaborato alla “Tosca” di Lucio Dalla. Che ricordi ha?
R. Meravigliosi. Ho passato molto tempo nella sua casa di Bologna, a parlare di tutto: lui per la danza aveva un’enorme sensibilità. Ci siamo rivisti a febbraio, a Sanremo: ci siamo abbracciati e ci siamo messi a ballare nei corridoi dell’Ariston. Gli ho proposto di lavorare di nuovo insieme e lui ne era entusiasta. Una settimana dopo ho saputo che era morto. Mi manca tantissimo. Penso che abbia lasciato un vuoto enorme.
D. Che effetto le ha fatto lavorare ad “Amici”?
R. Mi è piaciuto, anche se l’aspetto della competizione non mi appartiene minimamente. Però Maria De Filippi mi ha permesso di dare sfogo alla mia follia, perché il teatro per me è quasi una religione. Ho cercato di insegnare ai giovani a tirare fuori il genio che hanno dentro, indipendentemente dal loro collo del piede.
D. Come si passa da un genere all’altro?
R. Non è sempre facile perché devo cambiare cappello, capire cosa succede. Ma ora ho capito un po’ quali sono le esigenze della televisione, del cinema, ambiti dove comunicare l’urgenza della danza e del movimento non è sempre facile.
D. Dove vive?
R. Vado avanti e indietro fra Italia e Stati Uniti. Vivo a Los Angeles, ma da venticinque, trent’anni ho un rapporto costante con il vostro paese. Per me è diventato un posto vicino e creativo.
D. Il cast di “Open” da chi è composto?
R. Due danzatori italiani e sei americani.
D. C’è differenza nella formazione?
R. Non direi. Più della nazionalità, nella formazione emerge l’origine, cioè se un danzatore ha iniziato in televisione o in teatro, oppure in strada per divertirsi e poi è stato consigliato di seguire un corso. Questo fa la differenza, qui e là. Un tempo in Italia i danzatori non capivano la lezione di Martha Graham, ma oggi tutti conoscono l’importanza della contrazione, sanno che ogni movimento parte dal centro del corpo.
D. Perché lo spettacolo si intitola “Open”?
R. Per tanti motivi. Il titolo fa riferimento all’apertura culturale, ma anche stilistica, perché ho sempre il problema di definire il mio tipo di danza. Mi piace mescolare. La mia formazione non è classica, quindi ci sono poche punte. Non è neanche la break dance, quindi non roteo tanto sulla testa. Ma posso usare ognuno di questi elementi per comunicare il senso del momento. Il titolo, poi, è anche la parola in sé, con le sue quattro lettere molto bilanciate. Le vedo e nella mia testa succede qualcosa. Open vuol dire aperto al mondo, al lavoro, al business, agli altri.
D. Prossimo impegno?
R. Un po’ di riposo ci vuole, dopo la preparazione di “Open”. Erano quattro anni che non facevo le coreografie di uno spettacolo teatrale. Poi vado in Giappone, dove uno stilista mi ha chiesto di lavorare con lui alla presentazione della prossima collezione.
D. Ha una casa in Maremma con un uliveto…
R. E’ un rudere, ma, intorno, ci sono 450 ulivi che hanno prodotto già una sessantina di litri d’olio. L’olio, col caffè, sono gli alimenti che amo di più». Due sapori molto mediterranei. Del resto, il pubblico italiano le ha sempre fatto ponti d’oro.
D. Come definirebbe la sua danza?
R. La mia danza è fisicità, ironia, leggerezza e tanta gioia. Non voglio un pubblico annoiato, ma felice e convinto. Che quando esce dal teatro porti via qualcosa attraverso gli occhi. Voglio sorprenderlo. La musica classica che ho scelto è alla portata di tutti, come nel film Fantasia di Disney. Beethoven miconsente di piantare un albero in scena, che poi regalo al pubblico. Il messaggio è quello di ripiantare un nuovo mondo. Ho un figlio di10anni:questo è ormai il suo mondo. Dobbiamo rispettarlo.
D. Quali altri significati nel suo “Open”?
R. Il contrasto tra città e natura. Non è mia intenzione raccontare una storia, il clima è piuttosto astratto. Sono i vari elementi insieme a fare la storia. Il filo conduttore è che attraverso la città arrivo alla natura. I danzatori metà spettacolo sono vestiti, metà nudi ma dipinti. Io ho molte storie nella testa e nel mio corpo, ma il mio sguardo esterno è mia moglie Arabella, ex attrice di cinema e tv.
D. Come mai ha scelto come titolo “Open”?
R. In un primo tempo avevo pensato a Recostruction, pensando a Calvino. Dobbiamo rimuovere, ricostruire. Ma il titolo non funzionava. Mia moglie mi ha suggerito Open: unaparola bella in cui c’è tanta energia. Aperti possono essere il cuore, la mente, gli occhi, una finestra. Bisogna guardare al presente senza remore, appunto con mente aperta. La vita è spesso pesante, ma abbiamo tanta energia positiva che aiuta a risolvere i problemi.
D. Ci sono due italiani nella sua compagnia.
R. Sei americani e due italiani. Sono persone totalmente differenti ed è stata una fatica metterli in sintonia. La danza classica, quella moderna, l’hip hop sono tenute insieme solo dalla musica classica.
D. Quale è il suo linguaggio?
R. A 19 anni ho scoperto che potevo esprimermi e raccontare col corpo. Il linguaggio nasce dal corpo che è il nostro strumento. La tecnica è solo un modo di esprimersi. A differire sono solo le finalità. La danza è anche per strada, non solo nelle sale prove o nei teatri.
D. Lei negli 80 con Momix e Iso aprì una nuova danza contemporanea anche giocosa, atletica. Danza di successo mondiale che in questo tempo però sembra accusare il passo. Intravede un’altra nuova danza per questi nostri giorni?
R. Non saprei, sono una persona che ha dedicato la vita alla creatività del movimento in ogni spazio: palcoscenico classico, Broadway, televisione. Per me l’atto creativo è sacro e può insorgere dalla cosa in apparenza più inutile. Nell’inseguirlo, le mie cellule provocano una reazione che fa vivere l’opera stessa. Non posso quindi dire dove sta andando la danza, semplicemente perché la danza è molto più grande di noi ed è un istinto per me. L’importante è essere nell’oggi con il proprio bagaglio, perché è lo spirito che cambia. Oggi non posso più coreografare come facevo nei Momix!.
D. Rivela una energia di vivere che fa bene alla gente e all’Italia, paese che frequenta spesso.
R. Amo l’Italia, c’è affinità fra me e la gente, ogni volta che vi atterro respiro quiete, serenità interiore. In Maremma possiedo degli ulivi per fare l’olio. Perché il mio intento è di coltivare un orto sano con ogni prodotto, come sto facendo a Los Angeles. Per non lasciare a mio figlio di 10 anni soltanto un mondo di plastica. Certo, è faticoso “e s se r c i”, ma non c’è senso di vivere un altro giorno se non continuando a fare, ad agire. E senza giudicare noi stessi, perché non porta a nulla.

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