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PASSI_UNA CONFESSIONE

Recensione | Teatro Mancinelli di Orvieto

PASSI_UNA CONFESSIONE di e con Tamara Bartolini: cronaca in un fiume di parole

In piedi, seduta, distesa e sempre appesa. Così, in un teatro Mancinelli ridotto per l’occasione, Tamara Bartolini, attrice, scrittrice, interprete, ‘pezzo unico’ del lavoro Passi_Una confessione, andato in scena giovedì 9 aprile nel teatro di Orvieto. Estetica moderna già chiara da subito quando gli spettatori fanno ingresso e scoprono lei, già appesa a una delle due altalene pendenti dal soffitto: capelli rossi disordinati, vestito blu da grand soirée e scarpe rosse, tacco dodici, abbandonate sul palco. Da qui inizia la sua confessione, come nel sottotitolo dell’opera che si è aggiudicata nel 2014 il Premio Dominio Pubblico Officine, prodotta con il sostegno del teatro Argot studio, quello dell’Orologio e il Kilowatt festival, fra l’altro. Un monologo nato dal progetto del duo Bartolini Baronio (perché a Michele Baronio si devono scene, luci, suoni e immagini live, confezione impeccabile del lavoro), intitolato ‘La caduta’, sul tema dell’incidente e del dolore come possibilità di rinascita.

Tamara, dunque, inizia a parlare a noi, a te che sei seduto alla fine della tua giornata di trantran lavorativo, familiare, di auto e treni in corsa, di ansie e parole, di persone che hai lasciato passare accanto a te senza ascoltare. Lei parla a te perché in te cerca l’assoluzione di quella confessione di una vita: “ti piace, ti piace così, va bene, va bene così” ti chiede. Una litania, una formula ripetuta a ogni piccolo blocco interno allo spettacolo che ti riporta indietro, lì sulla tua sedia di ‘giudice d’eccezione’, dopo aver assistito a valanghe di parole come pugni allo stomaco: padri mancanti, infanzie difficili e scarpe ortopediche, adolescenze altalenanti e ‘piedi di scimmia’, Barbie contro Kelly, convergenze umane, stenti, paure, ossessioni, minacce, sogni terribili, silenzi insormontabili, disadattamento e fuga. Nelle parole di Tamara Bartolini c’è tutta una vita da raccontare e a cui si riesce a prender parte dall’alto del nostro scranno di pubblico.

Seconda ossessione, il tempo. Il tempo che non c’è più e che non basta, quello della corsa ostinata all’obiettivo che ti viene (im)posto dall’esterno, quello che tu non riesci a seguire, quello stesso che Tamara, di profilo al pubblico, appesa per le braccia, cerca di acchiappare con le sue stesse mani e tutto il fiatone che ne consegue fino alla sua assoluzione: “ci sarà tempo, per il resto ci sarà tempo”. E lì, di nuovo o per la prima volta, ti accorgi, tra il pubblico, che l’assoluzione di Tamara è la tua, appartiene cioè, come finalità che l’arte e il teatro non dovrebbero mai smettere di inseguire, a tutta l’umanità, alla condizione umana: sul palco, del resto, ci siamo tutti. Tutti siamo coinvolti: “se non sei pronto a dare tutto ti devi fermare”, ammonisce Tamara, “se non ti piace ti devi fermare”. Solo così lo spiraglio di uno sguardo al futuro possibile e la pace finale nella musica (canzone originale di Ilaria Graziano).

Passi_Una confessione si può raccontare solo così: a un fiume di parole si risponda, insomma, con un fiume di parole, a una valanga di emozioni, per forza, si risponda con una valanga di emozioni. Forse, certo, disordinante, ossessive e ossessionanti, ma questo è il teatro della vita e – ce l’ha detto Tamara –  “non bastano le etichette”. Lo spettacolo, in conclusione, è un abbraccio caldo di comprensione delle nostre debolezze, tentato piano piano per tutto il tempo sul palco fino a quando, magicamente, il sipario è salito per rivelare la platea dall’altra parte e il pubblico da quest’altra.

Maria Cristina Costanza

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