«Da tempo immemorabile l’infinito ha suscitato le passioni umane più di ogni altra questione. È difficile trovare un’idea che abbia stimolato la mente in modo altrettanto fruttuoso, tuttavia nessun altro concetto ha più bisogno di chiarificazione». Così si espresse il grande matematico del Novecento, David Hilbert, riguardo al «concetto che è il corruttore e l’ammattitore degli altri» (Jorge Luis Borges, Metempsicosi della tartaruga). La questione dell’infinito investe problematicamente tutta la storia del pensiero filosofico e scientifico occidentale, a partire da alcuni nodi problematici posti dalla filosofia e matematica antiche. L’Apeiron, l’infinito incontrato dai filosofi greci, aveva le sembianze di un mostro da cui ripararsi. Appariva come qualcosa di temibile, inclassificabile, da rimuovere da ogni punto di vista: matematico, fisico, filosofico.

Dal punto di vista matematico furono i Pitagorici a temerlo e rinnegarlo. La scoperta delle grandezze incommensurabili, del primo irrazionale (la radice di due), provocò un terremoto all’interno della setta, tanto da scacciare Ippaso di Metaponto, colpevole di aver rivelato l’esistenza di tali mostri, i numeri irrazionali. Cosa indichiamo con l’affermazione che la radice di due è irrazionale? Semplicemente che non può essere scritta sotto forma di frazione, a suon di cifre. Vuol dire che, se noi vogliamo scrivere lo sviluppo decimale di radice di due, cioè scrivere radice di due come uno virgola quattro e così via, dobbiamo precedere senza fermarci mai, andando avanti infinitamente.

Dal punto di vista fisico fu Aristotele a porre una barriera al concetto di infinito. Alcuni filosofi precedenti avevano sostenuto la tesi dell’infinità dell’universo; fra questi Democrito e Archita, il pitagorico amico di Platone. Scrive Simplicio: «Democrito ritiene che la materia di ciò che è eterno consiste in piccole sostanze infinite di numero; e suppone che queste siano contenute in altro spazio infinito per grandezza» (DK, 68 A 37). Secondo questo frammento Democrito ammette sia l’infinità numerica degli atomi, sia l’infinità dello spazio che li contiene. Anche il pitagorico Archita opta per un universo infinito; a lui è attribuito, sempre da Simplicio, il seguente noto argomento: «Se io mi trovassi all’estremità dello spazio, ad es. nel cielo delle stelle fisse, potrei tendere la mano o un bastoncino fuori di quella? O non potrei? Dire che non si può è assurdo; ma se si ammette che si può tendere la mano fuori, quello che è fuori sarà corpo o spazio (…). Così sarà dimostrato che infiniti sono corpo e spazio» (DK 47 A 24). Aristotele, al fine di combattere simili argomentazioni, introduce un’”arma segreta” e istituisce una critica serrata e sistematica. La novità è una cruciale distinzione tra due tipi di infinito: l’infinito in potenza e quello in atto, una contrapposizione che sarà destinata a condizionare profondamente i matematici successivi. Secondo Aristotele, l’infinito attuale va inteso come un’infinità compiuta, che si presenta nella sua totalità in un momento ben determinato, mentre l’infinito potenziale è un’infinità distribuita nel tempo, simile a un processo che non ha mai fine. Esclusa l’esistenza dell’infinito in atto, Aristotele non intende comunque negare l’apeiron in modo assoluto; a suo avviso, esistono manifestazioni evidenti dell’infinito, quali l’illimitato scorrere del tempo, la successione dei numeri e la continuità delle grandezze… cioè la loro divisibilità senza fine. In questi casi, però, l’infinito esiste solo in potenza, cioè come processo mai completato; Aristotele precisa che l’essere dell’infinito corrisponde all’essere di un divenire, per cui l’infinito è divenire continuo, non sostanza. L’infinito potenziale così inteso può essere di due tipi: per addizione o per divisione. Il primo consiste in un processo sommatorio senza termine, in cui a una parte qualsiasi di una data grandezza si aggiungono successivamente altre quantità, senza arrivare mai a una conclusione. Invece l’infinito potenziale per divisione consiste nel dividere una grandezza in due parti, nel sottrarne una e nell’operare sull’altra allo stesso modo, con un procedimento che non ha mai fine. Aristotele sostiene che il numero è infinito nel primo senso, lo spazio nel secondo e il tempo in ambedue.

Anche dal punto di vista filosofico fu neutralizzato. Secondo Aristotele, l’infinito in atto, che non esiste sul piano fisico, non può neppure essere presente nel nostro pensiero sotto forma di infinito mentale, perché noi possiamo pensare solo qualcosa di definito, dotato di forma, ossia qualcosa di determinato. Qui basterebbe ricordare la celeberrima riflessione di Parmenide: «Infatti non potresti avere cognizione di ciò che non è (poiché non è possibile), né potresti esprimerlo… Infatti lo stesso è pensare ed essere». Bisognerà aspettare Nicola Cusano, siamo circa nel 1450, per intravedere un concetto positivo dell’infinito. Ma alcuni secoli dopo il grande filosofo Kant lo reinterpreterà di nuovo come concetto negativo. Secondo Kant è un problema irrisolvibile, che mette la filosofia con le spalle al muro. Sarà Hegel a riassestarlo in positivo, cambiando l’accezione di infinito. Lo porterà sul terreno della storia e ne farà lo strumento stesso del pensiero, l’ambito per eccellenza dello spirito.

Oggi l’infinito è pane quotidiano dei matematici, croce e delizia dei fisici e degli astronomi, sollazzo e poesia per i filosofi. Eppure è stato uno dei grandi problemi della storia del pensiero. Gli aspetti paradossali che produce nella mente umana hanno preceduto o accompagnato la serie di shock epistemologici che segneranno il tortuoso cammino della matematica e della fisica nei secoli: le geometrie non-euclidee, i numeri immaginari, gli iperspazi einsteiniani, l’infinità dimensionale della meccanica quantistica. Una collana di scosse e sconvolgimenti che sembra non trovare fine. Tra i “sismi” accennati un posto particolare deve essere assegnato a Georg Cantor e alla sua teoria dei transfiniti. Cantor, nella seconda metà dell’Ottocento, trovò un modo originale per affrontare la tematica dell’infinito in matematica. Tramite tutta una serie di procedure inedite e ardite riuscì alla fine ad esclamare: «Lo vedo, ma non lo credo!»… «Un quadratoha tanti punti quanto il suo lato»!!! Sconvolgente! Di più! La scoperta e la dimostrazione di Cantor che un quadrato, e cosi pure un cubo, è composto dalla stessa totalità dei punti del suo lato – sì, proprio così: Cantor afferma che la totalità dei punti dello spazio bidimensionale di un quadrato, o tridimensionale di un cubo, possiede tanti punti quanti ne possiede il suo lato – è quanto basta per mandare in tilt la mente umana e far crollare la quasi totalità delle imponenti costruzioni filosofiche occidentali. E sfiancherà le certezze antiche e moderne, fino a creare un alone di debolismo epistemologico che annebbierà tutto il XX secolo (un ottimo testo al riguardo è quello di Morris Kline, Matematica, la perdita della certezza, Mondadori, 1985). Solo dopo una tale rivoluzione concettuale si potranno aprire le porte all’assurdo e al fantastico del mondo fisico, così come verrà ridisegnato dalla fervida immaginazione di Einstein, Bohr, Heisenberg, Dirac… I viaggi nel tempo, gli iperspazi fino a 950 (!) dimensioni, i buchi neri virtuali, i bosoni fantasma, i fotoni coscienti… non sarebbero potuti entrare nella nostra visione del mondo, nella Weltanschauug del nostro tempo, se non avessimo fatto quel salto di “follia epistemica” accettando la rivoluzione di Cantor (il quale morì in un ospedale psichiatrico). Certo, si potrà guardare la medaglia dalla faccia A o dalla faccia B. Si potrà dire in stile parmenideo: “guarda la grandezza del pensiero, che riesce ad isolare una verità accerchiata e velata da illusioni e dogmi”. E allora si potrà «far uso dell’infinito senza paura, sempre che si attengano fedelmente alle regole, per strane che possano apparire» (Paul Davies, Sull’orlo dell’infinito. Singolarità nude e distribuzione dello spazio-tempo, 1994). Oppure, al contrario, in stile platonico, si potranno contare le tante “certezze cadute” con “la bomba” sganciata da Cantor, cercando un possibile antidoto. Adesso diventa più chiara l’affermazione di Hilbert: «nessun altro concetto [come quello di infinito] ha più bisogno di chiarificazione». Ai lettori la sfida: digerire A o intraprendere B. Quest’ultimo è il punto di vista di Galileo, Cartesio, Pascal. Scrive il primo: «Queste son di quelle difficoltà che derivano dal discorrer che noi facciamo col nostro intelletto finito intorno a gl’infiniti, dandogli quelli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate; il che penso che sia inconveniente…». Analogamente il secondo: «Sarebbe ridicolo che noi, che siamo finiti, cercassimo di determinare qualcosa, e con questo mezzo supporlo finito tentando di comprenderlo. Ecco perché noi non ci cureremo di rispondere a quelli che domandano se la metà di una linea infinita è infinita, e se il numero infinito è pari o dispari, e altre cose simili, poiché solo quelli che s’immaginano che il loro spirito è infinito sembra debbano esaminare queste difficoltà». In completo accordo il terzo: «Rendiamoci dunque conto delle nostre possibilità: noi siamo qualcosa, ma non siamo tutto; … quel poco di essere che possediamo ci nasconde la vista dell’infinito».

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