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“Che buon caffè, neanche a Bologna lo fanno così”.

 

Forse furono queste le ultime parole di Lucio prima di sentire una fitta al petto.

Questione un secondo, un colpo al cuore. Quello stesso cuore da lui spesso cantato.

Se n’è andato così, senza sapere di dover iniziare quello che lui definiva “il secondo tempo di ognuno di noi”.

E forse la morte è proprio questo. La pausa di pochi secondi tra due parti di un bellissimo film.

Avere poco tempo per prendere bevanda e pop corn e tornare seduti. Lì, su una poltroncina bordeaux per continuare ad ammirare la pellicola di noi stessi.

Lucio Dalla. 68 anni. Bologna. Se n’è andato senza preavviso.

È partito così come arrivò, in punta di piedi, nel 1964: quel giovane bolognese di 21 anni e con un futuro che non ti aspetti.

Ma il primo marzo 2012 non è morto solo un cantante, un genio, un poeta. È morta un’idea: l’idea di cantautorato italiano.

“Essere un cantautore” è uno stile di vita. Un vento di fantasia che colpisce senza avvertire. In Italia, in Europa, in tutto il mondo.

Scrivere ed interpretare le proprie emozioni, essere capaci di suonare la colonna sonora della vita di tante persone: questo è “essere un cantautore”.

Anni fa questa etichetta te la dava la fama, la tua vita bohème, la forza dei tuoi testi. Gino Paoli, Claudio Baglioni, Riccardo Cocciante, Renato Zero, Paolo Conte, Gianni Morandi, Francesco Guccini, Francesco De Gregori ma anche Bob Dylan, Paul Simon e chi più ne ha più ne metta.

Esisteva ancora la bella musica. Il cantautore era un uomo libero di esprimere la sua libertà, la sua visione del mondo.

Il primo marzo ci siamo finalmente svegliati, capendo che i grandi ci stanno lasciando. Il loro testamento è un brano da ascoltare quando ci sentiamo soli. Il loro desiderio: quello di avere eredi degni.

E negli ultimi anni il cantautorato si sta riprendendo i suoi spazi, ma in maniera ambigua. Il fascino dei grandi del passato è diventato quasi una droga o forse solo un peso troppo grande per i nuovi cantautori.

Non sarà facile per un Dente, un Brunori SAS, un Morgan, un Caparezza cercare di essere ciò che erano i grandi della musica italiana. La loro forza delle parole dovrebbe spostarsi da ciò che era il passato, guardare avanti. Verso ciò che non c’è ancora stato. Ammirare le canzoni retrò per prendere la spinta e lanciarsi verso quello che ancora non c’è.

Noi attendiamo a braccia aperte qualche nuova stella nascente. Attendiamo note nuove, che possano portare via la malinconia di questi vecchi poeti che ci lasciano per sempre.

Che forse sono semplicemente dall’altra parte della cuffia, sempre presenti, a rivivere ogni volta che pigiamo il pulsante PLAY sulle loro grandi opere d’arte. Perché di arte dobbiamo parlare. La poesia e la musica, insieme. Da studiare nei licei insieme a Manzoni, Leopardi e Pirandello.

Forse la loro eternità vivrà tra le note che ascolteremo in futuro. Oggi, domani, sempre.

O forse sono dall’altra parte della barricate a ridere di noi.

Forse sono tutti in un bar empireo dell’arte. Fabrizio De Andrè starà bevendo un vino rosso con Luigi Tenco mentre Gaber gioca a biliardo con Battisti e Gaetano. Poi la porta del bar si apre: un altro dio della musica italiana è arrivato. “Benvenuto Lucio” gli canteranno gli avventori già nel bar da anni ormai. E sulle note di “Caro amico ti scrivo” Dalla forse esordirebbe con “pronti per una partitella a briscola?”.

Nella sua ironia, come sempre. Grande tra i grandi. Da Piazza Grande, da Bologna, dall’Italia e da tutti gli amanti della bella musica sale un pensiero verso il paradiso dei poeti.

Senza cantautori non c’è cultura. Senza cultura non c’è libertà.

Il cantautore è un eroe. Non servitore dello Stato, ma servitore della storia di questa nazione.

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