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PRIMO

Recensione | Teatro Mancinelli di Orvieto

PRIMO di Jacob Olesen Recital letterario da “SE QUESTO È UN UOMO” di Primo Levi.

Adattamento Giovanni Calò e Jacob Olesen
musiche originali Massimo Fedeli, disegno luci Luca Febbraro, scene Antonio Belardi
regia Giovanni Calò

I soggetti della scenografia sono tratti da opere di EVA FISCHER

Era il 1947 e Primo Levi, di ritorno dalla tragica esperienza di deportazione nel campo di Monowitz, lager satellite polacco del complesso di Auschwitz e sede dell’impianto Buna-Werke, pubblicava la prima edizione di ‘Se questo è un uomo’, da allora fino ad oggi manifesto e testimonianza unica di una barbarie che mai umanità dimenticherà.

Oggi, nel 2015, a 70 anni dall’apertura di quei cancelli su cui trionfava beffarda la scritta “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi) ha ancora senso ricordare quanto accaduto perché non si può dimenticare e, soprattutto, non si deve. Da qui si parta per assistere alla messa in scena di Primo, monologo intenso ed emozionante di Jacob Olesen per la regia di Giovanni Calò. Un recital letterario, andato in scena giovedì 14 maggio al teatro Mancinelli di Orvieto, che accompagna nella storia del testo di Levi facendo di Olesen l’io sciagurato di quella vicenda con tutto quanto ne consegue.

Nel lungo e faticoso monologo di Olesen, quindi, si ripercorrono i 13 mesi di inferno in terra vissuti da Levi, chimico torinese ebreo che si imbarcò in questa avventura letteraria con il solo scopo di testimoniare l’orrore che avvenne nei campi istituiti dal regime nazifascista tedesco  durante il secondo conflitto mondiale. Calò accoglie il volere principale di Levi nel suo testo e restituisce al pubblico quello stesso fiume di parole, gestito mirabilmente da Olesen, perché tutti sappiano e tutti non dimentichino mai.

Olesen-Primo parla dal regno dei morti, dove il silenzio è irreale, la notte inghiotte corpi e corpi, il tempo passa goccia a goccia e si compie la demolizione dell’essere umano. Olesen-Primo, infatti, è solo 174.517, nulla più che un numero in fila per la doccia, per la rasatura, per la spedizione al lavoro, per la vita o per la morte decisa con un ‘si’ o un ‘no’ rapido e, crudelmente, distratto di una Ss. Levi come Olesen sul palco quindi resiste e combatte, con la voce e con il corpo teso, per il solo obiettivo di negare il consenso per dignità, per restare vivi, per non cominciare a morire. È la danza degli uomini spenti quella che via via si palesa davanti al pubblico, membra come involucri vuoti, numeri al posto di nomi, gambe e braccia sostituiti per sempre a sogni e volontà. Non c’è tempo e nemmeno spazio per avere paura. Ogni giorno vivere è resistere alla vita a fronte della vergogna, dell’ignavia e dell’accidia, della riduzione a bestia, del meccanico e cantilenante Jawohl pronunciato solo per non soccombere.

Olesen entra in scena e colpisce, nella sua fisicità definita, nel suo linguaggio che ancora, qua e là, tradisce il patrio svedese, nella forza unica di passare dalla paura di Primo alla spietatezza di una Ss, dalla disperazione dei malati prossimi alla morte allo smarrimento totale di tutti coloro (35mila transitarono solo a Monowitz, oltre 10mila perirono in quel luogo) che abbandonarono la propria vita al termine di un binario ferroviario.

Primo è ancora utile perché ancora la storia del razzismo, della sopraffazione, della pulizia etnica o religiosa e della violenza celata dietro queste cause presunte riecheggia in tanti angoli del mondo. ‘Primo’ è necessario per gli italiani a memoria degli oltre 900mila che furono caricati su un treno che avrebbe stravolto, calpestato e bruciato per sempre la loro esistenza. Essenzialità manifesta a favore di una causa che appartiene all’umanità, quindi, palpabile in tutte le scelte della messa in scena di Primo: nella regia di Calò, pulita e semplice, nella recitazione di Olesen, vero pugno allo stomaco per gli spettatori, nelle musiche originali di Massimo Fedeli, riecheggianti da un passato popolare e perduto, nelle luci di Luca Febbraro a costruire pezzi di vita in uno spazio teatrale definito e chiuso. Tutto ha collaborato a creare la perfetta cornice per tornare a riflettere su un pezzo di storia tragica dell’umanità che all’umanità tutta appartiene. Un calcio in bocca per tutti e anche per gli spettatori del Mancinelli che dopo il finale, molto rapido, hanno faticato a mettersi in piedi immediatamente restando invece per un attimo in silenzio, seduti, a mettere insieme i pezzi per tornare alla vita adesso futile dei disagi che ci costruiamo possedendo tutto e dimenticando spesso ciò che di più prezioso abbiamo: l’essere uomini liberi.

Maria Cristina Costanza

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