UN BASTIOLO ALL’AMERICA’S CUP

Gentilissimi questo vuol essere un omaggio ad una grande passione quella per il mare e per la vela, e per tutti coloro che nei secoli hanno sfidato le grandi acque…

Il vostro reporter per un giorno, bastiolo e quindi originario e residente in una delle cinque regioni italiche non bagnate dal mare (di cui gli specchi d’acqua del Trasimeno, di Corbara, Alviano e Piediluco, più qualche piscina qua e là, costituiscono l’eccezione più che la norma), per quegli strani appuntamenti col destino che non si possono perdere, ha avuto la fortuna di assistere dal vivo alle World Series dell’America’s Cup in preparazione della sfida ufficiale del prossimo anno a San Francisco, nella baia di Auckland, con sfondo il Golden Gate e la tetra isola di Alcatraz, sì proprio quella del più famoso carcere del mondo.

Che cos’è l’America’s Cup. Un po’ di storia

La gara ebbe inizio, un po’ in sordina, nell’agosto del 1851 quando il Royal Yacht Squadron britannico sfidò il New York Yacht Club, che decise di partecipare con la goletta America, in un percorso attorno all’Isola di Wight. America vinse aggiudicandosi la coppa.

Di questo episodio si ricorda l’aneddoto secondo il quale la regina Vittoria, saputo della vittoria di America, avrebbe chiesto quale barca fosse giunta seconda e si sentì rispondere: “There is no second, your Majesty” (motto dell’America’s Cup), non c’è secondo.

La bruciante sconfitta subìta dagli inglesi fece la fortuna di questa competizione; uno degli sfidanti più famosi e determinati fu il Sir Thomas Lipton, proprio quello del the, che organizzò cinque sfide tra il 1899 e il 1930, tutte con yacht chiamati Shamrock, spendendo una fortuna, ma restando a bocca asciutta.

Le esperienze italiane

Nel 1983, si tennero una serie di regate eliminatorie, per le quali venne istituita come premio la Louis Vuitton Cup. Risale a questa edizione anche la prima partecipazione di una barca italiana, Azzurra, supervisionata dell’avvocato Gianni Agnelli, affidata al famosissimo skipper Cino Ricci e timonata dal temerario Mauro Pelaschier. Si classificò terza tra gli sfidanti, ma soprattutto fece conoscere al pubblico italiano (fra questi un tredicenne impacciato che si innamorò all’istante della vela…indovinate chi?) l’esistenza di questa competizione. La vera sorpresa di quell’edizione fu l’aggiudicazione della coppa da parte degli australiani, che spezzarono l’imbattibilità degli americani, durata 132 anni.

La vera impresa, però, la compì il Moro di Venezia, nel 1992. Fortemente voluta da Raul Gardini, romagnolo molto sanguigno di Ravenna e timonata da uno spietato  bucaniere dei giorni nostri, il franco americano di San Diego Paul Cayard, riuscì nell’impresa di aggiudicarsi la Louis Vuitton Cup,   acquisendo il diritto a contendere la Coppa America all’imbarcazione statunitense America³ (America Cubbed) e divenendo, così, la prima imbarcazione di un paese non anglofono a poter ambire alla coppa, in 141 anni di storia del trofeo. Perdemmo 4-1, ma molti italiani si ricordano le notti insonni trascorse davanti al video con la speranza che un refolo di vento amico spingesse il Moro verso la vittoria. E poi … poi la Luna Rossa.

L’idea di Patrizio Bertelli (il marito di Miuccia Prada) di lanciare una sfida in America’s Cup nacque nel 1997. In breve tempo, Bertelli assoldò gli uomini chiave del team: il progettista Doug Peterson, il brasiliano Torben Grael, lo skipper partenopeo Francesco de Angelis. Il varo avvenne a Punta Ala nel maggio di due anni dopo, madrina Miuccia Prada. Miuccia Prada racconta ancora oggi come il nome Luna Rossa fosse perfetto da contrapporre a Black Magic, il defender (detentore) neozelandese.

Per la seconda volta dopo il Moro di Venezia, un team italiano vince nel 2000 la Louis Vuitton Cup e diviene lo sfidante ufficiale dell’America’s Cup. Per la prima volta uno skipper non anglosassone, Francesco de Angelis, entra nell’Olimpo della vela mondiale. In finale, nel golfo di Hauraki in Nuova Zelanda, Black Magic, timonata dal vero corsaro nero Russell Coutts, ci suona 5-0.

C’è poi lo strano caso di Alinghi…

Nel 2003, lo sfidante Ernesto Bertarellisvizzero di passaporto, ma italiano di nascita – vinse la finale della Louis Vuitton Cup con la sua Alinghi, timonata da Russell Coutts, sconfiggendo lo sfidante americano, Oracle BMW Racing di Larry Ellison, con il punteggio di 4-1.

In finale, Alinghi supera i kiwis (neozelandesi) e porta la coppa in Svizzera!!!

da qui la famosa battuta, credo di Diego Abatantuono: “credo proprio che il mondo si stia ribaltando, non vi pare? Come perché? il più forte ed apprezzato rapper del mondo è bianco (Eminem), il numero uno al mondo sui campi da golf è nero (Tiger Woods) e la Coppa America, tipica manifestazione marinara, è stata vinta dalla Svizzera (Alinghi)! fate voi….

Veniamo a noi, sarà la splendida San Francisco, nel 2013, la più europea delle città americane, ad ospitare l’America’s Cup, perché Larry Ellison, il magnate americano proprietario ed armatore di Oracle, ha vinto l’ultima edizione e chi vince sceglie dove regatare. La sfida sarà fatta con i cosiddetti AC ovvero catamarani, che possono benissimo essere considerati come i bolidi del circus della Formula Uno. Hanno ben poco del fascino dei classici scafi a vela ed è accesa la diatriba fra i puristi, che non considerano questi “oggetti che galleggiano” come delle barche a vela, e quelli, come il sottoscritto, a cui piace lo spettacolo e la velocità.

Da questo punto di vista non c’è proprio paragone. Se avete la memoria buona, basta ricordare le ore trascorse invano davanti alla tv , ovviamente di notte, in attesa di una brezzolina, un soffio di vento che permettesse ai vari Moro di Venezia, Luna rossa di muoversi, letteralmente.

Con i catamarani una semplice brezza basta a far “volare sulle acque” questi concentrati di tecnologia al carbonio, anzi con vento sopra i 15 nodi i sopracitati a Venezia non sono stati fatti uscire dall’arsenale della marina, (village della AC World Series) perché sarebbero giunti tranquillamente in poco tempo sulle sponde slovene.. e non è una battuta.

Tecnicamente, sono barche molto difficili da manovrare perché hanno le derive, e non i classici timoni, ed attualmente solo cinque uomini di equipaggio; con molto vento schizzano via e le barche appoggio non ce la fanno a riportarle sotto costa.

I nove scafi visti a Venezia, sono tutti AC45, di 13 metri ca. di lunghezza con albero da 20 metri ca: Luna Rossa Swordfish (Pescespada) e Luna Rossa Piranha (ITA), Oracle 4. Oracle 5 (Usa), Energie (FRA), Artemis (SWE) il cui team manager è un ringiovanito, senza baffi, ma ancora molto grintoso Paul Cayard, China team (CHI) Korea team (Corea del Sud) e per finire Fly Emirates Team New Zealand.

Sulla base dell’esperienza di questi due anni (da non dimenticare la tappa napoletana dello scorso aprile) in giro per il mondo, il prossimo anno si disputerà la vera Coppa America con gli scafi AC71 ovvero da 71 piedi, circa 25 metri di lunghezza con – udite! udite bene! – 40 metri d’albero (ovvero dieci piani d’altezza) non mi viene in mente nulla di così alto a Bastia, forse il mitico Conservone???

Tradotto significa missili acqua-acqua, undici uomini di equipaggio, equilibristi molto coraggiosi, impavidi o incoscienti con elevata probabilità di finire in mare e tanta, tanta fatica.

Per la cronaca, di buon mattino sono in giro per l’arsenale dove le barche sembrano sonnecchiare, quando mi sfila accanto James Spithill, lo skipper di Oracle 4, che firma autografi e saluta la gente agitando la mano a mò di surfer, pollice e mignolo allungati! Più in là, i kiwis si divertono, sbraitando in un incomprensibile inglese.  Quelli di Luna Rossa, non si vedono ma si sentono… sono in riunione tecnica.

A bordo di Swordfish c’è lo skipper Max Sirena, quarantenne guascone di Rimini, timoniere l’inglese Paul Campbell James e ancora Allister Richardson, Manuel Modena trimmer –ovvero addetto alle vele- (il mio ruolo quando regato, alternandomi con quello di prodiere) ed Emanuele Marino. Piranha ha al timone Chris Draper, anche lui inglese; il tattico è Francesco Checco Bruni da Palermo, trentottenne eletto dagli specialisti del settore il re del match-races dell’ultimo anno (ovvero gara a due ), Pierluigi De Felice, Nick Hutton e David Carr.

E poi lo spettacolo: verso mezzo giorno gli scafi si animano e dall’arsenale un po’ sornioni gli equipaggi portano “fuori” le barche.

Di corsa torniamo indietro usciamo dall’arsenale e…  almeno ottantamila persone sono assiepate sulle rive, 600 imbarcazioni, tribuna di San Giorgio tutta esaurita. Mi manca il fiato…

Guadagno a fatica un pezzetto di selciato ad un metro dall’acqua. Guardo il campo regata: non potrò vedere lo start – che è quasi tutto in queste tipo di competizione – ma ho i cancelli di poppa a non più di 300 metri in linea d’aria.

Grazie ad un venticello malizioso che cambia spesso rotazione  (altrimenti non saremmo a Venezia) le barche si danno veramente battaglia a forza di virate e contro virate, i catamarani si impennano che è una meraviglia. Urlo contro Max Sirena che in una virata blocca Swordfish… ed ecco – cari concittadini – la nostra rivincita:

Un distinto signore mi fa: “ti che te gapisse de ‘sta roba, come mai ‘ste barche le fa ‘vanti e ‘ndrio come matti, chi se sta vincendo? Mi son de Venessia, ma sti tosi l’è proprio fora”; la più grossa soddisfazione che mi potesse capitare…

Un veneziano, un erede della Serenissima, che chiede spiegazioni a me che a vela ci vado qualche volta d’estate e solo davanti alle coste toscane! Ed io giù a spiegare che chi ha le mura a dritta (vele gonfiate a destra dal vento) ha la precedenza nelle manovre, che adesso vanno di bolina – ovvero controvento – e quindi fanno zig zag per forza di cose, che sotto di noi – ovvero a riva – piuttosto che al largo, forse c’è più vento ed i nostri sono molto furbi a rubare il vento agli avversari, mettendoli tecnicamente sottovento. E di seguito: i cancelli non aprono o chiudono nulla, sono delle boe che le barche devono affrontare tre volte cambiando dalla bolina al vento in poppa – ovvero da dietro – e quando si ha il vento in poppa, come si dice, non ti ferma nessuno.

A fine giornata, col suo fare da guascone, Max Sirena tra un autografo e l’altro e assediato dai cronisti, diceva: “Meraviglioso regatare a San Marco, abbiamo mostrato che l’Italia non è poi così male”.

Agli esperti della vela il campo di gara di San Marco, però, non è piaciuto, perché “troppo stretto, difficile regatare” (forse perché li abbiamo suonati ben bene, dico io!!)

Più severo, invece, il francese Loick Peyron, skipper di Energy, l’unica barca che parla francese; sono in testa, infatti, in queste World Series: “E’ un campo decisamente troppo stretto, ma siamo a Venezia ed è uno spettacolo incommensurabile”.

A proposito della lingua… è fondamentale in queste barche capirsi al volo, perché se sbagli manovra, con questi mostri, ti fermi letteralmente e poi sono veramente … guai.

In tutte le altre barche si parla inglese; i nostri mi sembrano affiatati, ma spesso ho sentito urlare sia Checco Bruni che Max al trimmer di turno non proprio in stile anglosassone!

Gli americani, e soprattutto i kiwis, li ho visti molto rilassati, più in gita premio, per intenderci, che a spaccarsi le mani.. estasiati col tramonto su San Marco e sospiranti a cento metri dal Ponte dei Sospiri… e chi non lo sarebbe!!

Non male per uno che abita vicino al Tescio, che non tira da due anni …

What else??

Ah sì, there’s no second guy.

Buon vento a tutti

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